L’innovazione è la linfa vitale dell’economia contemporanea e le startup ne sono oggi le principali interpreti. Dall’intelligenza artificiale alla biotecnologia, ogni nuova impresa nasce dalla promessa di un’idea capace di cambiare le regole del gioco. Ma troppo spesso si parla di innovazione come se fosse soltanto una questione tecnica, o peggio, di intuizione geniale e ci si concentra ossessivamente sulla qualità dell’idea come se bastasse da sola a generare valore.
Si tende a credere che, in un contesto fluido e dinamico come quello delle startup, ciò che conti davvero sia la capacità di agire con rapidità, di arrivare per primi sul mercato e di crescere rapidamente. Ma c’è un momento, prima di ogni pitch, prima del primo prototipo, prima perfino della costituzione societaria, in cui si decide se quell’idea avrà una vita autonoma e tutelata oppure se sarà destinata a disperdersi.
È il momento in cui si deposita, o si sceglie di non depositare, un brevetto.
Chi si occupa di proprietà industriale sa bene che i diritti IP non sono strumenti puramente difensivi, come spesso vengono rappresentati nei dibattiti più superficiali. Al contrario, costituiscono asset economici veri e propri in grado di dialogare con investitori, banche, partner industriali e perfino con il legislatore fiscale. In questo ambito, il brevetto si trasforma da semplice meccanismo di tutela a motore di posizionamento strategico capace di incidere sulle dinamiche di funding, sulle valutazioni d’impresa e sulle exit strategy.
In Italia il riconoscimento formale di “startup innovativa”, secondo quanto previsto dall’art. 25 del Decreto Legge 179/2012, è subordinato al possesso di precisi requisiti oggettivi e soggettivi, tra cui spicca l’intestazione o la licenza di almeno un brevetto o software registrato. Con la Legge 193/2024 è stato aggiornato il quadro normativo, prevedendo la possibilità di prolungare lo status d’impresa innovativa fino a cinque anni, rispetto al limite triennale originario. Tale estensione è subordinata al raggiungimento di almeno uno tra diversi requisiti di sviluppo, tra cui l’ottenimento di un brevetto, l’aumento significativo delle spese in ricerca e sviluppo, la stipula di contratti di sperimentazione con la pubblica amministrazione o la realizzazione di aumenti di capitale da parte di investitori qualificati.
Non solo: per le startup che entrano nella fase di scale-up, è prevista un’ulteriore proroga fino a nove anni qualora siano soddisfatte condizioni più stringenti, come l’incremento annuo dei ricavi del 100% o l’ingresso di fondi specializzati per importi rilevanti.
La norma, però, non va letta solo come una soglia da superare per accedere ad un regime fiscale e amministrativo di favore, piuttosto come un’indicazione chiara della centralità della proprietà industriale nel DNA delle nuove imprese ad alto contenuto tecnologico.
I numeri in tal senso parlano un linguaggio inequivocabile: uno studio congiunto condotto nel 2023 dall’Ufficio europeo dei brevetti (EPO) e dall’Ufficio dell’Unione Europea per la proprietà intellettuale (EUIPO) ha evidenziato che le startup titolari di brevetti e marchi hanno probabilità da 4 a 10 volte superiori di ottenere finanziamenti da fondi venture capital. L’effetto si amplifica nella fase seed ed early stage, quella più delicata e rischiosa, dove la credibilità dell’impresa è ancora legata quasi esclusivamente all’idea e al team. La presenza di diritti di PI registrati costituisce, in questo scenario, un segnale forte e verificabile di solidità, visione, lungimiranza.
Eppure il valore dei brevetti non si esaurisce nell’accesso al capitale di rischio poiché si riflette in una maggiore capacità di definire accordi commerciali (grazie alla licenza o alla cessione), di instaurare relazioni paritetiche con grandi aziende tecnologiche (spesso interessate a fare open innovation), e persino nella possibilità di ottenere vantaggi fiscali. Si pensi al regime del “Patent Box” che consente un’esclusione parziale dei redditi derivanti dallo sfruttamento di brevetti e altri beni immateriali ai fini delle imposte sui redditi.
Ed è proprio quando si guarda al brevetto come strumento multifunzione, e non come semplice barriera contro la concorrenza sleale, che se ne colgono appieno le potenzialità.
Uno degli errori più comuni è quello di considerare la brevettazione come un passo successivo alla costituzione della società. In realtà, in moltissimi casi è proprio l’idea brevettabile a costituire il cuore dell’impresa. In tali contesti è fondamentale definire subito la titolarità dei diritti sull’invenzione: se questa è stata sviluppata da un singolo socio prima della fondazione, potrebbe essere opportuno mantenerne l’intestazione personale e concederne successivamente licenza esclusiva alla startup.
In alternativa, è possibile procedere con la cointestazione del brevetto tra i fondatori, salvo poi conferire o licenziare il diritto alla società in fase di avvio.
In alternativa alla licenza o alla cointestazione, il brevetto può anche essere conferito in natura alla società in sede di costituzione come bene immateriale. Questa operazione, oltre a trasferire formalmente il diritto alla startup, consente di valorizzare economicamente l’invenzione sin dal primo bilancio, incidendo sulla capitalizzazione iniziale, sul patrimonio netto e sui rapporti equity/debito. È una soluzione particolarmente efficace nei casi in cui l’innovazione rappresenta il nucleo dell’attività futura e si desideri che sia parte integrante del capitale sociale fin dall’origine. Naturalmente è opportuno che tale conferimento sia supportato da una perizia di stima indipendente, soprattutto se si prevede un ingresso di investitori esterni già in fase early stage.
Questa distinzione, apparentemente tecnica, ha in realtà riflessi profondi sul piano della governance, della valutazione dell’impresa e della gestione dei rapporti tra soci. Pensiamo, ad esempio, al caso non infrequente in cui uno dei soci esca dall’impresa dopo pochi mesi: se il brevetto resta intestato a lui, la startup potrebbe trovarsi in una posizione di estrema debolezza contrattuale. Viceversa, intestare immediatamente il brevetto alla società senza un chiaro accordo può generare tensioni, soprattutto quando l’invenzione nasce da un lavoro individuale o da contributi non equamente distribuiti.
In aggiunta, un aspetto tecnico troppo spesso trascurato è la questione della divulgazione anticipata: esporre l’idea in pubblico, parlarne a investitori senza un NDA, o presentarla in eventi di networking prima del deposito può rendere l’invenzione non più brevettabile a causa della perdita del requisito della novità. Tuttavia il Codice della Proprietà Industriale consente, entro 60 giorni, di integrare una domanda iniziale depositata in fretta, offrendo un margine di tutela anche nelle fasi più frenetiche. Una flessibilità utile soprattutto per le startup in corsa verso il product-market fit.
Nel caso in cui la startup sviluppi una tecnologia composta da più componenti (si pensi a un sistema IoT con hardware, software e architetture di rete) si pone la questione della strategia brevettuale da adottare. È preferibile brevettare l’intero sistema cercando di ottenere protezione sull’effetto tecnico complessivo, oppure conviene frammentare l’invenzione in più brevetti, ciascuno dedicato a un elemento funzionalmente autonomo?
La risposta non è mai univoca, ma deve tenere conto del principio di unitarietà dell’invenzione sancito dall’art. 161 del Codice della Proprietà Industriale e dall’art. 82 della Convenzione sul Brevetto Europeo: se le parti dell’invenzione sono tecnicamente integrate e producono un effetto unico, allora si può optare per un unico brevetto. Ma se ogni componente ha una propria autonomia funzionale e può essere riutilizzata in altri contesti, conviene proteggerla separatamente.
In molti casi una scelta errata o frettolosa può portare ad una pre-divulgazione dannosa, la quale renderà impossibile proteggere successivamente un componente descritto nel brevetto principale. È ciò che viene definito in dottrina come autosabotaggio brevettuale: un errore che può compromettere il futuro dell’intera strategia IP dell’azienda.
Nel momento in cui una startup inizia a cercare fondi, la presenza di uno o più brevetti diventa uno strumento cruciale di attrazione del capitale, in particolare nei settori deep-tech dove il rischio percepito è alto e gli orizzonti temporali di ritorno sono lunghi.
Per un investitore, sapere che l’impresa detiene diritti esclusivi su un’invenzione validata dall’ufficio brevetti è una garanzia concreta. E non solo: in caso di fallimento del progetto imprenditoriale, il brevetto può essere ceduto o licenziato generando entrate o salvando parte del valore dell’investimento.
In questo senso, il diritto di PI si configura come una sorta di “paracadute patrimoniale” che può sopravvivere alla startup stessa. Non a caso le startup che detengono sia brevetti che marchi hanno una probabilità più che tripla di riuscire in una exit strategy rispetto a quelle che non possiedono alcun diritto IP. Questo vale sia per le IPO che per le acquisizioni da parte di gruppi industriali: in entrambi i casi, ciò che si compra non è solo la tecnologia, ma il diritto esclusivo di sfruttarla.
Quando si parla di proprietà industriale in ambito startup si tende a rimanere confinati nelle logiche di tutela e posizionamento. Ma in realtà un brevetto ha anche una dimensione contabile e fiscale, spesso sottovalutata dai founder e perfino da alcuni advisor. Infatti un brevetto può essere iscritto, a pieno titolo, a bilancio come bene immateriale e in alcuni casi può addirittura costituire parte del conferimento iniziale in natura dei soci. Questo comporta conseguenze rilevanti in termini di capitalizzazione della società, di rapporto equity-debito e di valutazione in sede di due diligence.
Laddove ben strutturato, un portafoglio di proprietà industriale può rappresentare un elemento differenziale decisivo in fase di trattativa con investitori professionali o con eventuali acquirenti.
Un capitolo a parte merita il Patent Box, introdotto in Italia con l’art. 6 del D.L. 146/2021, che consente di dedurre dal reddito d’impresa una quota pari al 110% dei costi sostenuti per lo sviluppo, la valorizzazione e la tutela dei beni immateriali. È evidente come questa misura rappresenti un incentivo diretto alla brevettazione, non solo nella fase iniziale ma anche in ottica di sviluppo progressivo delle tecnologie.
Non si tratta solo di beneficiare di un’agevolazione fiscale, ma di costruire un ecosistema virtuoso in cui la proprietà industriale sia vissuta come elemento di pianificazione strategica e non come adempimento burocratico.
Se è ormai noto che brevetti e marchi rafforzano il dialogo con gli investitori in equity, meno nota è la loro funzione di leva per l’accesso al credito bancario, in particolare per le startup che entrano in fase di crescita o transizione verso lo scale-up. Alcuni istituti di credito più evoluti hanno introdotto strumenti di valutazione degli asset intangibili per determinare il merito creditizio, arrivando in alcuni casi a considerare i brevetti come veri e propri collaterali.
In parallelo, si moltiplicano le iniziative pubbliche nazionali ed europee che offrono finanziamenti a tasso agevolato o contributi a fondo perduto condizionati alla presenza di diritti IP. È il caso del Fondo per le PMI promosso dall’EUIPO, ma anche di numerose call PNRR, regionali e comunitarie che, nei criteri di valutazione, premiano le startup titolari di brevetti, modelli o marchi.
Dunque il brevetto non è più solo un “lasciapassare” per proteggere l’invenzione, ma appare come vero e proprio moltiplicatore di opportunità che può attivare percorsi di finanziamento pubblico e privato, contribuendo a rafforzare la posizione competitiva dell’impresa a tutto tondo.
Anche il dialogo con il sistema bancario e con i programmi pubblici di sostegno passa sempre più attraverso la solidità del portafoglio di diritti IP, rendendo la proprietà industriale non solo un vantaggio competitivo, ma un vero e proprio catalizzatore di crescita.
Molte startup italiane, spesso orientate fin dall’inizio verso il mercato globale, commettono l’errore di pensare alla tutela internazionale della propria invenzione come ad una fase successiva, eventualmente da valutare dopo il primo round di finanziamento o al momento dell’ingresso in nuovi mercati.
In realtà, proprio perché l’internazionalizzazione è un presupposto, non una conseguenza, la strategia brevettuale deve essere pianificata in modo lungimirante già al momento della stesura della prima domanda nazionale. L’Italia, come è noto, consente di rivendicare la priorità internazionale nei 12 mesi successivi al primo deposito: è questo il lasso di tempo in cui si decide se estendere la domanda a livello europeo (via EPO o tramite brevetto unitario) o mondiale (attraverso il sistema PCT).
Tali decisioni non sono meramente tecniche o finanziarie ma rappresentano una dichiarazione di intenzione strategica. Una startup che brevetta solo in Italia lancia un messaggio ben diverso da chi si impegna sin da subito in una protezione internazionale, per quanto selettiva. E, per un investitore, questo è un segnale molto concreto sul livello di ambizione e sulla solidità del modello d’impresa.
Tutelare un’invenzione non è un’operazione standardizzabile: ogni deposito richiede un’attenta analisi preliminare, uno studio comparativo dello stato dell’arte, la redazione di un testo descrittivo e di un set di rivendicazioni che siano sufficientemente ampie da proteggere, ma non così vaghe da essere facilmente contestabili.
Non è raro che startup di ottimo livello tecnico cadano in errori gravi di autogestione della PI, affidandosi a soluzioni do-it-yourself o a generalisti non specializzati. Questo porta a brevetti mal strutturati, facili da aggirare o addirittura destinati ad essere annullati in sede di opposizione o contenzioso.
Ancor più importante è la gestione del portafoglio brevettuale nel tempo: avere un solo brevetto non è sufficiente per chi sviluppa prodotti modulari o piattaforme scalabili e serve una visione sistemica, capace di anticipare gli sviluppi futuri dell’invenzione e di proteggerne le evoluzioni.
È qui che entra in gioco la consulenza specialistica in proprietà industriale che non si limita al deposito ma accompagna l’impresa lungo tutto il ciclo di vita dell’innovazione.
Ci si potrebbe chiedere: è davvero necessario per una startup brevettare fin da subito? Non sarebbe meglio aspettare, validare l’idea, testare il mercato? Ogni caso è diverso, certo. Ma una cosa è evidente: la protezione della proprietà industriale non è mai un ostacolo, semmai è ciò che permette di fare i passi successivi con più libertà, forza contrattuale e visione.
Un brevetto ben scritto, ben pensato e ben gestito non è un pezzo di carta. È una dichiarazione d’identità, una linea nella sabbia che dice: “questa è la nostra innovazione, ed è solo nostra”. È un elemento di reputazione, di strategia e di valore, anche laddove l’invenzione non diventerà mai prodotto o mercato.
In un mondo in cui la competizione si gioca sempre più sulla velocità con cui si genera, protegge e valorizza il sapere tecnico, non c’è tempo per la retorica del “poi vedremo”. Il futuro delle startup passa dalla consapevolezza che il diritto d’autore, il marchio e soprattutto il brevetto non sono orpelli giuridici da professionisti, ma strumenti fondanti dell’impresa tecnologica moderna.
E il momento di usarli, spesso, è molto prima di quanto si creda.
Data
18/05/2025Categoria
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